Scoperta la principale causa di deterioramento dell’emblematico cromatismo intenso e sgargiante de L’Urlo, celebre dipinto di Edward Munch custodito al Munch Museum di Oslo, che rischia di sbiadire.

Tra le pagine di un taccuino dello stesso Edward Munch scritte a Nizza e datate 22 gennaio 1892, l’artista norvegese disegna con le parole, ancor prima che con i colori, quella che diventerà una delle opere più famose ed emblematiche della sua arte, L’Urlo:

«Camminavo lungo la strada con due amici – era il tramonto -, sentii come un soffio di malinconia. Tutto d’un tratto il cielo si trasformò in rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai alla staccionata stanco morto, vidi le nuvole fiammanti come sangue e simili a sciabole sopra il fiordo e la città nero pesto. I miei amici continuarono – io stavo lì, tremante di angoscia – e sentii come un grido forte, infinito che attraversava la natura.»1

È l’umidità il principale fattore di degrado dei pigmenti gialli di cadmio impiegati dal pittore norvegese nel suo celebre quadro.

Le tonalità di colore vibranti e brillanti che caratterizzano il quadro noto in tutto il mondo, con il passare del tempo rischiano di sbiadire.

A trovare la soluzione un team internazionale coordinato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche.

È l’umidità, e non la luce, il principale fattore di degrado dei pigmenti gialli di cadmio impiegati dal pittore norvegese nel suo celebre quadro. L’indagine, condotta grazie all’utilizzo di metodologie spettroscopiche del tutto non invasive del Molab, il laboratorio mobile del CNR e alle tecniche di micro-analisi dell’ESFR di Grenoble, ha portato alla luce un risultato che suggerisce le condizioni ambientali ottimali per esporre l’opera, finora raramente fruibile a causa delle sue delicate condizioni.

Dal 2006 il capolavoro è stato raramente esibito a causa del fragile stato di conservazione, dovuto non solo a cause ambientali, ma anche alla natura stessa dei pigmenti utilizzati e in conseguenza dei danni subiti dopo il furto avvenuto nel 2004 che lo ha sottratto al Munch Museum di Oslo per due anni. Adesso, grazie a questo studio scientifico che ne ha rivelato la causa principale di deperimento, potrà nuovamente essere esposta e dare la possibilità a quanti vorranno di godere dell’opera d’arte.

Così la ricerca scientifica fornisce ai conservatori le indicazioni per esibire permanentemente il dipinto in condizioni di sicurezza.

Per ottenere il risultato diagnostico, sono state utilizzate presso il Munch Museum di Oslo, le strumentazioni portatili, basate su metodi non invasivi di spettroscopia, della piattaforma europea Molab, finanziata dalla Commissione Europea nel contesto del progetto Iperion-Ch, un laboratorio mobile coordinato da Costanza Miliani, direttrice dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale (ISPC) del CNR, successivamente, presso l’infrastruttura European synchrotron radiation facility (ESFR) di Grenoble in Francia, sono stati effettuati esperimenti con sorgenti ai raggi X su micro-frammenti prelevati dall’opera d’arte.

Le micro-analisi effettuate al sincrotrone hanno permesso di individuare che l’umidità è una delle cause principali di degrado dei pigmenti gialli di cadmio del dipinto. Infatti diversamente da quanto si pensava, la luce ha un impatto irrilevante sul deperimento di tali pigmenti rivelatisi più stabili alla fonte luminosa di quanto non siano i gialli di Van Gogh nella serie dei Girasoli, ampiamente analizzati dallo stesso team del Molab.

L’approccio innovativo dello studio condotto, grazie all’integrazione di differenti tecniche d’indagine, potrà essere utilizzato con successo per esaminare altre opere d’arte che soffrono di simili problemi.

Numerose le istituzioni coinvolte nella ricerca: dall’Università degli Studi di Perugia (Italia), all’Università di Anversa (Belgio), al Bard Graduate Center di New York (USA), al sincrotrone tedesco DESY (Amburgo), al Munch Museum (Oslo).


1. Marit Ingeborg Lange, Sidsel Helliesen Sillabe, Edvard Munch. Dal realismo all’espressionismo: dipinti e opere grafiche dalla Galleria nazionale di Oslo, 1999 p.33.