Spesso immaginiamo la scultura e l’architettura antica in marmo bianco, senza aggiunta di materiale di altro colore, ma ormai da diversi anni è stato dimostrato che questa non è un’immagine fedele. L’arte antica era caratterizzata da un ampio uso dei colori, utilizzati anche su statue e edifici.

Varie sono le fonti antiche che attestano l’uso di pigmenti e che tipo di materiali venivano utilizzati, sia per creare i colori che per creare i leganti che servivano a stendere il pigmento sulle diverse superfici.

La tavolozza pittorica, ad esempio, era costituita da un range relativamente ristretto di pigmenti, principalmente di origine minerale, con alcune eccezioni, come le lacche organiche o il blu egizio. Per stendere il pigmento venivano impiegate materiali naturali come la cera d’api, l’albume, la caseina o le colle animali.

La colorazione potenziava la struttura formale e narrativa dell’opera d’arte, soltanto grazie all’aiuto del colore l’artista raggiungeva la ricercata vitalità della sua opera”.

Vinzenz Brinkmann

A causa del passare dei secoli, dell’esposizione in ambienti ostili, come ad esempio, seppellimenti o collocazione in ambiente esterno e talvolta ad interventi conservativi radicali, sopravvivono pochissime tracce di colore, in molti casi quasi del tutto invisibili.

Oggi, grazie allo sviluppo di protocolli archeometrici basati sull’impiego di strumenti analitici sempre più affidabili, anche le più piccole tracce di colore possono essere riscoperte.

Recentemente in ambito archeologico, si è consolidata la consapevolezza che la conoscenza del colore originale sia fondamentale per la comprensione della scultura antica. Questa convinzione ha portato allo sviluppo di gruppi di ricerca interdisciplinari costituiti da archeologi, conservation scientists e conservatori coinvolti in un’attenzione più matura sul restauro e sulla conservazione delle tracce di colore sulle superfici sia architettoniche che statuarie.

A questi studi e ai progressi scientifici nel campo della diagnostica è anche dedicato un importantissimo evento internazionale a cui partecipano ricercatori, specialisti e studiosi esperti del settore, da tutto il mondo. Si tratta dell’International Round Table on Ancient Polychromy Colour & Space. Interfaces of Ancient Architecture and Sculpture è stato il tema della decima edizione, tenutasi quest’anno dal 10 al 13 novembre scorsi, un confronto internazionale tra gli studiosi di architettura e scultura antica su vari aspetti della superficie e della policromia.

II gruppo di ricercatori CNR ISPC di Firenze, impegnato da tempo in questo campo, ha preso parte al convegno per presentare uno studio condotto sulle tracce di policromia residua presenti sulle statue della Villa di Poppea ad Oplontis (NA).

La ricerca è stata condotta applicando un protocollo scientifico ormai consolidato che prevede l’impiego di metodologie di indagine di tipo non invasivo che non prevedano il prelievo di campioni, mantenendo intatte le tracce sulla superficie e tramite strumentazioni portatili, effettuando quindi le indagini direttamente in situ.

Le analisi sono state eseguite utilizzando tecniche di imaging fotografico multibanda (visibile, luminescenza UV, luminescenza indotta da radiazione visibile VIL) e tecniche puntuali (spettroscopia di fluorescenza a raggi X e spettroscopia a riflettanza di fibre ottiche UV-VIS).

Confrontando i risultati acquisiti sono state ottenute nuove informazioni sulla tavolozza pittorica e sulla storia conservativa degli oggetti, fornendo dati aggiuntivi per aumentare la conoscenza e la comprensione di queste decorazioni ormai non più visibili.

Dettaglio del Sarcofago di Lot, Catacombe di S. Sebastiano, Roma
Immagine Visibile VS Luminescenza indotta da radiazione visibile VIL

Dettaglio del Basso rilievo di “Mitra che uccide il toro”, fine del III secolo d.C. conservato nella Sala dei Culti Orientali, Museo delle Terme di Diocleziano, Museo Nazionale Romano. 
Immagine Visibile VS Fluorescenza ultravioletta